Un’altra giornata iniziata poco prima dell’alba: tra le 6.15 e le 6.45 tutti siamo già in piedi e quel che è peggio senza sonno. Effetto ancora del jet-lag? Credo di no; il fatto è che nella giornata coroneremo tutti un sogno di bambini: vedere le mitiche Cascate del Niagara, che per antonomasia sono le cascate più grandi e spettacolari (sebbene sappiamo tutti che quelle più grandi sono in Africa, sul lago Vittoria) e questo ci mette una strana adrenalina in corpo, che ci ha fatto svegliare presto e rapidamente concludere la colazione. Ma proprio stamattina Osvaldo è in ritardo: sono solo dieci minuti, ma a noi sembrano un’eternità.
Quando arriva, tutti saltiamo sulla macchina (che oggi porta anche Enzo, il figlio di Mario) e in poco più di 90 minuti siamo in vista del confine tra Stati Uniti e Canada, dove sorgono le Niagara Falls. La giornata è splendida, un sole assolutamente non velato da alcuna nuvola, e per questo l’aria è particolarmente frizzante: -6 gradi al suolo, ma appena scendiamo diventano -15 a causa di un leggero vento che spira dal lago Eire. Ma noi non ci facciamo scoraggiare, anche perché siamo “armati” di tutto punto, tra guanti, cappelli, sciarpe, paraorecchie e varie altre tecniche di copertura del corpo (praticamente siamo otto paia di occhi che camminano…).
Subito raggiungiamo l’ascensore per visitare il “cuore” della cascata, dall’interno, con tanto di impermeabile usa-e-getta d’ordinanza, che mi pone parecchi problemi nell’indossarlo: le provo tutte, ma la mia testa quasi si rifiuta di infilarsi nel buco giusto, con scenette macchiettistiche, di pura comicità, fino a quando in tre non mi “conferiscono” l’infido impermeabile giallo.
Visitare le Cascate del Niagara dall’interno è un’esperienza unica: oltre al fragoroso rumore che ininterrottamente accompagna il passaggio nei cunicoli, c’è la sensazione forte della spaventosa e straordinaria forza bruta della natura, amplificata poi dai vari cartelli esplicativi presenti lungo il camminamento, che ricordano come degli ingegneri abbiano escogitato un espediente tecnico per “rallentare” l’inesorabile e progressivo avanzamento del fronte della cascata.
Quando ci affacciamo alla sommità della cascata, lo spettacolo si fa più bello, soprattutto grazie agli arcobaleni che si formano continuamente lungo il fiume San Lorenzo, in prossimità del salto. In lontananza, scorgo il Victoria Bridge, il ponte su cui passa il confine tra Usa e Canada e location per uno dei film che amo di più, il remake di “Non siamo angeli”, con Robert De Niro e Sean Penn.
Foto, cartoline, souvenir… ci siamo comportati da bravi turisti, mentre la temperatura saliva a -2. Il tempo di risalire in macchina, direzione Hard Rock Cafè, ma non essendoci il parcheggio nelle vicinanze, abbiamo fatto il giro della città, osservando una piccola Las Vegas, fatta di attrazioni e casinò. Eh, appunto, il casinò: Mario ed Osvaldo avevano deciso di portarci a far vedere questo grande stabilimento soprattutto perché al suo interno c’è un ristorante che permette agli avventori, con poco meno di 9 dollari, di mangiare tutto, ma proprio tutto, quello che si voleva.
Si poteva rifiutare una proposta del genere? Così tutti al casinò, tranne Gianluca: la guardia di servizio lo ha fermato sulla soglia della porta, ritenendolo forse minorenne (ed in effetti, tra barba fatta, abbigliamento informale, ci poteva stare). Richiesta di documenti e ilarità generale per l’ennesima disavventura…
Arriviamo al ristorante, non senza aver osservato come il casinò sia il regno di anziani di ogni età (dagli appena sessantenni fino a vecchietti decrepiti che imperterriti giocano alle slot machine) e la cosa ci ha costretti a riflettere alquanto: da noi la vecchiaia è il tempo della massima “avarizia”, mentre qui si scialacquano senza problemi interi patrimoni.
Le buone intenzioni di tutti, che volevamo fare un pranzo leggero leggero, si sono infrante sull’abbondanza delle proposte presenti nel ristorante: c’era davvero di tutto e, stranamente, anche una pizza decente, in tre gusti, formaggio, salame e verdure. Senza poi contare la quantità straordinaria di dolci di ogni tipo: apprezzata da tutti una mia idea, che abbinava i dolcetti al cocco alla salsa di cioccolato fondente.
Dopo pranzo, belli satolli, giro per l’Hard Rock Cafè e primi acquisti per i regali del ritorno.
Alle 16 di nuovo in macchina, ma stavolta il ritorno è stato un vero Calvario, a causa del traffico del fine-settimana: solo dopo due ore mezzo potevamo avvistare 86, Lois Drive, la casa di Mario.
Una doccia rapida, le notizie dall’Italia di SkyTg24 ed ecco che tutta la famiglia Ricciuti al gran completo (c’era anche Giulia, la figlia di Adriano, che ieri non era presente) arriva a prenderci per portarci in qualche locale tipico. Peccato che il ristorante prescelto non prendesse prenotazioni il venerdì sera. Risultato? Due ore e 45 di attesa prevista. Per noi italiani sarebbe andata di lusso, visto che nessuno di noi aveva fame, ma i piccoli Ricciuti scalpitavano per la fame e quindi giocoforza occorreva cambiare luogo.
Mai cambio di programma fu così apprezzato: arriviamo al Montana’s di Vaught, un locale rustico in stile country, dove l’attesa è di “appena” 35 minuti, trascorsi tra una birra e una chiacchiera. Al tavolo, c’è chi riesce a limitarsi, come me (solo insalatona, ma davvero particolare, con mandarini, ribes, lattuga, aceto balsamico, pomodoro, feta, gamberetti) o Roberto, e chi no. Tra questi ultimi, c’è Marco che chiede una costatina di maiale, pensando alle porzioni italiane: arriva invece un piattone enorme accompagnato da una serie di patate di ottima fattura. Con l’aiuto di Gianluca, anche la maxi-costatina è consumata.
La nostra cameriere, simpaticissima e disponibilissima, è Laura, che ci dice di essere abruzzese, ma non sa di dove precisamente. Alle nostre pressanti richieste, chiama i genitori a casa e scopre così di essere originaria di Civitanova Marche, altro che Abruzzo: si impone perciò un ripasso rapido di geografia italiana che io le impartisco (ovviamente in inglese) disegnando con dei gessetti che tutti i tavoli avevano in dotazione sul coperto (di carta), spiegandole, sempre in inglese, e qui ci sono stati comici problemi, che “meglio un morto in casa che un marchigiano dietro la porta”.
A coronamento della serata al Montana’s, i ripesi mi fanno arrivare di nascosto il copricapo a forma di corna di alce, che i camerieri del locale fanno indossare a chi festeggia il compleanno, corredandolo di canzoni goliardiche e mini-torta con candele.
Alla fine della serata, però, si sentiva la necessità di un vero caffè espresso: allora siamo andati a casa di Enzo e Marcella, in 80, Lois Drive, praticamente l’abitazione accanto a quella di Mario, che è stata realizzata con il medesimo progetto dell’altra. Ma di questo Mauro non se n’è accorto e, appena entrato, credendo di essere ritornato a casa di Mario, subito ha imboccato le scale per salire al piano superiore dove (a casa di Mario) ci sono le nostre stanze. Ilarità generale ed ironie sulla stanchezza e soprattutto sulla forza delle caraffe di birra che sul tavolo del ristorante si sono sprecate.
Ottimo caffè espresso, da tutti apprezzato, ma i padroni di casa hanno avuto anche il barbaro coraggio, dopo la luculliana cena, di tirare fuori un pandoro italiano con crema di limoncello… la morte sua!
Così, a mezzanotte appena trascorsa, siamo usciti da casa di Enzo e Marcella, con -9°, per fare rientro, finalmente nelle nostre stanze. Domani è il giorno della grande festa al Val di Foro Club, motivo primo della nostra trasferta canadese.